Un sussulto di vero dall’Ariston di Sanremo. L’annuale kermesse musicale, regina di polemiche imperniate di radicalismo eco-arcobaleno, s’interrompe dinanzi al monologo del Maestro Giovanni Allevi. L’orizzontalità del pre-sanremo e delle prime due serate, fatte di soliti slogan e cornacchie «antifa», viene spaccata da una verticalità che raggiunge il cuore di tutti e ci costringe ad andare all’essenziale, prima che la banalità dei testi delle allegre canzonette possa nuovamente occupare la nostra attenzione.
E’ da poco cominciata la seconda serata del Festival di Sanremo, quando il Maestro Giovanni Allevi fa il suo ingresso sul palco dell’Ariston. E’ consuetudine, per ogni ospite, tenere un monologo. Allevi ci sta, e parte con il suo. Qui vi è del clamoroso: non si tratta del solito spot ad una tematica preconfezionata nell’albume mediatico, ma viene fuori il tema della gratitudine, dell’essenziale e dell’eterno. Il riferimento del monologo è la malattia che il direttore d’orchestra ha scoperto di avere all’inizio dell’estate 2022. «Non ci girerò intorno: ho scoperto di avere una neoplasia dal suono dolce: mieloma, ma non per questo meno insidiosa». Eugenio Montale scriveva: «un imprevisto è la sola speranza». Dinanzi ad un tumore non c’è niente di più imprevisto. Un qualcosa che non avresti potuto prevedere e nemmeno puoi calcolare le conseguenze. Ancor più drammatico è quando accade nella vita di coloro che sono costantemente assorbiti dalla loro attività professionale. Eppure dinanzi all’imprevisto abbiamo due strade: la prima porta alla disperazione e alla rabbia totale, in questo caso più che una speranza è un’occasione mancata. La seconda strada è quella di Giovanni Allevi. La strada di chi anche dinanzi alla drammaticità della malattia sceglie di guardare all’essenza di tutto. All’inizio del suo monologo, Allevi evidenzia come sia cambiato il modo di guardare la sua attività di artista: prima andava in panico al notare una poltrona vuota durante un suo concerto; ora darebbe tutto pur di suonare anche solo davanti a dieci persone. Prosegue raccontando di aver riscoperto la bellezza del Creato, guardando le albe e i tramonti da una stanza di ospedale. Non manca di esternare tutta la sua riconoscenza verso ogni volto che gli è stato accanto in questi anni: dall’equipe di medici che lo ha seguito fino ai suoi cari famigliari e amici. Ma è alla fine del monologo che, possiamo dirlo forte, si raggiungerà il momento più alto di questa edizione del Festival (e forse anche degli ultimi anni). «Quando tutto crolla e resta in piedi solo l'essenziale, il giudizio che riceviamo dall'esterno non conta più. Io sono quel che sono, noi siamo quel che siamo. E come intuisce Kant alla fine della Critica della Ragion Pratica, il cielo stellato può continuare a volteggiare nelle sue orbite perfette, io posso essere immerso in una condizione di continuo mutamento, eppure sento che in me c'è qualcosa che permane! Ed è ragionevole pensare che permarrà in eterno.». In poche battute, Allevi piazza così tante verità che viene da chiedersi se effettivamente il pubblico lì presente fosse davvero pronto a quello che stava ascoltando. «Noi siamo quel che siamo», siamo desiderio di bellezza che riscopre il valore del Creato, siamo desiderio di amore che riconosce il volto dei propri cari come legato irrimediabilmente al proprio destino e desideriamo la felicità nonostante la vita stia per abbandonarci. Il tutto però, accompagnato da quel “qualcosa” che permane dentro di me, e che permarrà in eterno: niente di ciò che ci circonda ci soddisfa nella sua sostanza, ma ci soddisferà solo se rimanda a Colui che fa tutte le cose e fa anche il mio cuore. Non dobbiamo aggiungere altro, se non meravigliarci del fatto che, contro ogni nostro schema e progetto, Cristo continua ad accadere come Avvenimento. Lo ha fatto 2000 anni fa in mezzo ai farisei, lo ha fatto ieri davanti ai benpensanti in poltrona con pelliccia cammello.
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