di Stefano Chiappalone
Il boss mafioso non voleva funerali religiosi in nome di un rapporto personale "puro, spirituale e autentico" con Dio che sarà "la mia giustizia, il mio perdono". Una fede fai-da-te alquanto diffusa che finisce per auto-assolvere chiunque.
Niente funerali religiosi per il boss Matteo Messina Denaro, morto ieri a L’Aquila all’età di 61 anni, dopo trent’anni di latitanza e otto mesi di detenzione. La decisione è sua, espressa in un pizzino risalente al 2013.
«Rifiuto ogni celebrazione religiosa», queste le volontà di Messina Denaro, «perché fatta di uomini immondi che vivono nell’odio e nel peccato e non sono coloro che si proclamano i soldati di Dio a poter decidere e giustiziare il mio corpo esanime, non saranno questi a rifiutare le mie esequie». Come a dire: “non voglio dar loro neanche la ‘soddisfazione’ (che tale non è) di negarmi il funerale, sono io a rifiutare loro”, descrivendo la Chiesa alla stregua di un’associazione a delinquere. Quindi il boss si avventurava, a modo suo, sul piano teologico: «Il rapporto con Dio è personale, non vuole intermediari e soprattutto non vuole alcun esecutore terreno. Gli anatemi sono espressioni umane non certo di chi è solo spirito e perdono. Sono io in piena coscienza e scienza che rifiuto tutto ciò perché ritengo che il mio rapporto con la fede è puro, spirituale e autentico, non contaminato e politicizzato. Dio sarà la mia giustizia, il mio perdono, la mia spiritualità».
In sintesi, con Dio me la vedo da solo e guai a chi si mette in mezzo. Neanche di fronte alla fine o in vista di essa viene meno quel misto di orgogliosa impunità e senso di onnipotenza che i greci chiamavano hybris, dimenticando che «per sfidare Dio l’uomo gonfia il proprio vuoto» (Nicolás Gómez Dávila). China pericolosa al culmine e al termine di un’intera esistenza abituata a comandare e disporre della vita e della morte altrui, che spinge a illudersi di poter trattare persino Dio da pari a pari, perché all’atto pratico si fa di se stessi un “dio”. In tal senso, suona involontariamente drammatica la specificazione: «la mia giustizia, il mio perdono, la mia spiritualità», cioè: a modo mio, come io ho voluto, come io li ho perseguiti nella mia esistenza, fino alla tragica possibilità di scoprire solo nell’aldilà quanto siano amari i frutti scaturiti da determinati semi. E ciascuno ne tragga le somme, sempre salvando quell’estremo frammento di vita in cui solo Dio e il moribondo possono sapere cosa si siano detti. E le tragga innanzitutto per sé.
Molti di coloro che oggi reclamano giustizia, magari auspicando per il defunto le pene infernali descritte nei peggiori gironi danteschi, non si accorgono di essere cresciuti – sul piano puramente teologico – alla sua stessa scuola e sottoscriverebbero tutte o quasi tutte le formulazioni di questo agghiacciante testamento. Rifiuto la Chiesa perché tutti i preti sono «immondi e vivono nel peccato» (da qual pulpito, si direbbe, ma non pochi la pensano così). Rifiuto qualsiasi intermediario perché «il rapporto con Dio è personale» e proprio così è «puro, spirituale, autentico». E va da sé che otterrò il perdono («il mio perdono»), tanto più che, rifiutando qualsiasi mediazione, ciascuno è naturalmente portato ad auto-assolversi, persuaso che il giudizio divino non sia poi tanto dissimile dal proprio (perché “io sono buono”, che in fondo è il “non detto” da chiunque, compreso Messina Denaro).
Tipico di una mentalità che confonde la testimonianza della verità con la credibilità del testimone, perché in fondo non cerca la verità, ma la sua verità: a tale scopo il testimone più credibile è l’“io” stesso, l’unico su cui non avremmo nulla da ridire. Talora i peccati degli uomini di Chiesa sembrano il pretesto (oltre che per non guardare i propri) per non chiedersi se ci sia qualcosa di divino in quella Chiesa che da duemila anni rimane viva malgrado quella sua mescolanza di peccatori (certo), corrotti (altrettanto certo, ma meno di quanto si creda) e santi, il che raramente lo si ricorda. E sempre che si parli con cognizione di causa, poiché molti di quelli che “non vado in chiesa perché tutti i preti sono così e così”, generalmente di preti non ne hanno più visto uno dal giorno del battesimo o poco più. Ma ammesso (e non sempre concesso) che tra i successori dei Dodici Apostoli capiti proprio a noi qualcuno che sembri il successore di Giuda Iscariota, a nessun’altra società umana si applicherebbe la consueta generalizzazione per cui se dieci o mille preti sono delinquenti, lo sarebbero anche tutti gli altri: provate a farlo con qualsiasi altra categoria umana, politici, giornalisti, avvocati ecc., e vedete cosa (giustamente) vi risponderebbero. Ma se anche il parroco fosse un poco di buono, ci si dovrebbe forse privare dei sacramenti per causa sua? Era più o meno quanto credevano nel III secolo i donatisti, persuasi che la validità dei sacramenti dipendesse dalla dignità o meno di chi li amministra. A costo di banalizzare: smetterete forse di comprare il pane perché il fornaio tradisce sua moglie? Piuttosto, il pane me lo faccio in casa, risponderà qualcuno. Fuor di metafora: mi rivolgo a Dio per conto mio.
È alquanto comune e fa pure un po’ chic rivendicare una relazione personale, vis a vis, con l’Onnipotente, senza intermediari. Lo dice anche Messina Denaro: «Il rapporto con Dio è personale, non vuole intermediari». E nessun’autorità esterna dovrebbe intromettersi in questo rapporto «puro, spirituale, autentico». E chi ne certificherebbe la purezza? E se fosse distorto? E se portasse a considerarsi giusti malgrado uno o più crimini? Con questo libero esame, il parere di chicchessia varrebbe quanto quello di un boss mafioso e non ci sarebbe Chiesa alcuna legittimata a pronunciarsi in merito (a meno di non ricordarci improvvisamente che proprio a quella Chiesa «contaminata» e «politicizzata» dobbiamo i Vangeli e quant’altro si presume di interpretare in proprio). Quanto a noi, non potendo annoverarci tra gli apostoli o gli evangelisti (al massimo tra i farisei e i pubblicani), speriamo che ad assisterci in punto di morte e poi a celebrare Messe in nostro suffragio ci sia almeno il peggiore, il meno credibile e il più corrotto dei preti, misero veicolo di un potere di eterna riconciliazione ben più grande e più affidabile di quel singolare “vangelo secondo Matteo Messina Denaro”, più diffuso di quanto si creda.
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